La Sicilia
Lunedi 20 febbraio 2023
Marilina Giaquinta

Compare sulla scena, dopo un invito rivolto al pubblico, dietro le quinte, a vincere, per il tempo del teatro, la dipendenza dallo smartphone. Un invito dapprima di maniera, poi irriverente e fermo, che mostra malcelato fastidio per essere costretto a farlo.

Compare sulla scena, al suo centro, Silvio Orlando, vestito alla maniera di Aladino e poi capisci perché: sta per raccontare una fiaba. Una bellissima, commovente, struggente fiaba che mette in disarmo ogni difesa emotiva e ti lascia in balia del ritmo cullante del suo racconto.

Una fiaba tratta dall’omonimo romanzo, premiato col Goncourt, di Romain Gary.

La scenografia è essenziale. Tuttavia, man mano che Momò, questo stranito bambino arabo che guarda il mondo con gli occhi sgranati della meraviglia, srotola le vicende della sua vita, capisci che è anche necessaria, che non può che essere quella la scena, che esprime la stessa dolcezza disperata  e lo stesso smarrimento lacerato e indifeso, lo stesso bilico sulle cose che Momò esprime nei confronti della vita. Cubi verticali sbilenchi, funambolici – che ricordano la spettralità de “I Sette Palazzi Celesti” di Anselm Kiefer – che si tengono insieme quasi per miracolo, il miracolo della vita, della forza del nubifragio della vita, e una bergère rosso fiamma ( con un plaid che la trasforma quando i ricordi si fanno cupi e  la ferocia della memoria sovrasta ogni intento )  perché la vita è passione, è fuoco che arde anche nelle vene degli “invisibili”, dei “periferici”, per dirla con  l’Ortese, perché è dalla periferia che nasce la poesia, dalla mancanza, dai dimenticati, dai perduti, dai diseredati. Dai sopravvissuti al destino. Ed è poetico il racconto dolce, innocente, pieno del bisogno di dare e ricevere cura, il racconto mai arreso che Momò fa della vita (non solo la sua), attraverso la magistrale interpretazione di Silvio Orlando che riesce, con una naturalezza che non sa di scena, non sa di fictio, non sa di professione, di altro estraneo e testimone, a rendere vivi e parlanti con lui e dentro di lui, tutti i personaggi di questa fiaba anarchica, dove ognuno vive la vita come sa e come può. E allora Silvio Orlando è Momò, bambino arabo e per ciò diverso, che trova la bellezza in ogni cosa, che si stupisce sempre della generosità degli altri, quando gli capita, come se a lui non fosse permessa, come se non la meritasse. E allora Silvio Orlando è Madame Rosà, la prostituta ebrea, sopravvissuta all’Olocausto, che tuttavia tiene ancora conficcato nelle viscere del corpo e della mente, e che ha allestito, quasi con una simmetria perversa, un contrappasso, una maledizione materica, nelle viscere di quell’imminente crollo che è il posto in cui vive, un rifugio, una tana, dove si illude di scampare all’inferno dei ricordi. Saranno, forse, proprio quei ricordi a precipitarla, inesorabilmente, in un altro inferno: quello della demenza e del vuoto della ragione. E sulla scena, Silvio Orlando, con la “pietas” lieve della sua interpretazione, fa rivivere e parlare (rendendola indimenticabile) un’umanità dolente e solidale che si stringe intorno a Momò, nel bene e nel male. Silvio Orlando racconta, mima con una gestualità pierrottesca e con un corpo che sembra chiedere sempre scusa allo spazio, si siede, si alza, accenna passi di ballo, sprofonda sulla poltrona con la stanchezza dell’abisso di Madame Rosà, ruba un uovo e ti fa sentire una fame nera, presta la voce docile e birbante, empatica e proteiforme ai suoi personaggi, con una parola attenta, composta, di indulgente ironia che coinvolge e ipnotizza il pubblico – sì da tenerne sul filo l’attenzione – lo prende e lo porta per mano dentro quelle vite, quel tempo, quei luoghi, nel piccolo grande mondo di Momò. E sulla scena non c’è solo Silvio Orlando, ci sono tutti, tutti quelli di cui narra, e ti ritrovi a sentirti parte di quelle vite, e ti commuovi, e ti dilaga dentro la tenerezza, e ti si annoda la gola e, quando dalle mani erompe l’applauso, senti che è liberatorio, che tira fuori, con una carica esplosiva deflagrante, tutte le emozioni che quelle vite ti hanno suscitato.

Un grande artista della levatura di Silvio Orlando non si esprime solo attraverso la recitazione ma anche nelle scelte di regia e di costruzione dello spettacolo. Ed è per questo che ha deciso di affidare a Simone Campa la direzione musicale dell’opera e di circondarsi di quattro musicisti straordinari e generosi sia nell’esecuzione che nell’interpretazione, così bravi che la musica, nelle loro mani, diventa trama, ricamo, filo che imbastisce e cuce il tessuto narrativo. Intermezzi che partecipano del racconto, in un ritmo osmotico con le parole, parentesi mai invasive, rispettose del testo, sebbene di musica straripante si tratta, di sonorità etniche, circensi, echi di un’armonia rom, zingara, randagia come i giorni del piccolo Momò. Non accompagnamento, non sfondo, non “horror vacui” che va riempito e nemmeno arzigogolo o  belletto  o infiorettatura o pleonasmo, ma sostegno di architrave, fondamenta dell’edificio narrativo. Tribalità di tamburo, nostalgia di arpeggio di chitarra, melanconia sacra di fisarmonica, suono acuto – quasi grido che làncina –  di sassofono e rabbia argentina e limpida come acqua sorgiva della Kora mandinga che s’impone con la sua armonia d’arpa.

E Silvio Orlando lo sa, lo sa benissimo perché conclude lo spettacolo suonando insieme ai suoi musicisti, in un momento gioioso, trascinante, con una musica che è un climax inarrestabile circuitante e derviscio.

La  musica altra, che entra nello spettacolo, attraverso le note sputate da un mangiadischi arancione, è quella di Francoise Ardy che canta il suo famoso “Comment te dire adieu”.

Appunto: come si fa a dire addio a tanta bellezza.